Sono uscita dopo tre giorni: un fulard sulla bocca, retto sul naso, da un paio di occhiali neri, guanti di lattice appiccicati alle mani e si, sembro una squilibrata uscita di soppiatto da un nosocomio.
Fuori vento, silenzio, non c’è luce nelle foglie, un cielo virtuoso solo di nuvole, ha deciso di essere uno dei protagonisti della mia camminata, alla ricerca: di una mascherina sterile.
Siamo stati: arroganti, superbi, ciechi, frettolosi, cinici, finti, buonisti, senza essere davvero buoni verso gli altri, alla ricerca di una felicità abusiva, spesso sulle spalle dei più fragili, genitori figliali e non educativi, disonesti, spesso solo con noi stessi, ma ignari d’esserlo, con la nostra essenza, quella che adesso sta arrivando a chiederci dei perché, in mezzo a tutto il vittimismo, l’ansia, lo sconforto, la rabbia, il disorientamento assistendo al rumore delle notizie degli schermi, che fanno da tramite col mondo esterno.
Sono stati tolti i confini. C’è una paralisi e un tremore: un pianeta malato di Parkinson, ma il tema è la morte. Qualora, se ne avesse avuto paura, ora, pare sia il momento buono, per affrontarla.
Qui ancora non ci sono dei morti da contare. Si è in loro tacita attesa: perché, si sa che arriveranno e magari, molti più di quanti se ne potranno realmente piangere ed accompagnare, come sta accadendo nella terra dove sono nata: l’Italia, perché, ci hanno tolto anche i funerali, lì.
Servono solo a noi vivi, è vero: ma anche questo è un risultato, di cosa si è fatto alle nostre comunità.
Bloccata qui, fuori da casa mia, dalla mia lingua, gente, pizza, pasta, acqua, bellezza, gentilezza, arte, musica, calore, mi accorgo d’essere però, ovunque: anche a casa mia.
Da un mese circa, ho cercato di avvertire del pericolo già vissuto da altri, a me molto vicini, di un abisso che dilagava, veloce, intransigente, senza faccia.
Ma entravo nello sconforto del riscontro, di tanta leggerezza, già letta e vissuta da noi, nel menefreghismo evitante, del:”A me non capita, non può arrivare qui, la temperatura è troppo alta, bassa, la mutazione arriverà ad un punto di non contagio sterile, qui siamo sicuri, voi in Italia ci avete pensato troppo tardi, qui ci sono pochi anziani e i giovani non verranno attaccati…”, ricostruivo in me queste certezze, fatte di voci vacue e poi è accaduto: è arrivato, spiazzando gli increduli e rendendoli silenti e diffidenti e in attesa del decesso n.1: che, è inevitabile, arriverà, ci sarà anche qui, a dar loro la prova che sta accadendo anche qui, quello che osservano, in altri luoghi del mondo, come un film di fantascienza che ritenevano appartenesse ad altri e non, anche a loro.
Da italiana, abituata ai terremoti, mi sembra di girare tra esseri che ne stanno aspettando uno: il loro primo.
E’gente abituata alle guerre, ma non a questo, nessuno lo è. E’ una novità globale, nel mondo delle connessioni velocissime e digitali, ora abbiamo la connessione, nella sua polarità negativa: il contagio che fa ammalare il corpo dell’altro, anche quando neppure sai di essere un infetto.
E’ subdolo, è potente, intelligente: una mia amica scienziata genio, in una facoltà di geni ricercatori di qui, mi ha descritto il comportamento di questo ospite senza faccia: si avvicina alla cellula, come un amico suadente e allegro, dicendole che le può regalare quello che le serve per vivere: sodio, potassio…e lei, fiduciosa ed ignara: si apre e lo accoglie e lui la uccide, togliendole tutto.
Ha il comportamento che le società corrotte, adottavano, prima di tutto questo.
L’egoismo vero, puro: io sfrutto te, solo per i miei scopi.
Che è la mancanza totale, di ciò che invece dovrebbe essere l’equilibrio tra di noi. Praticamente è arrivato un professore ad ucciderci, a riequilibrarci.
Arrivo in un posto, dove hanno creato un parco con zampilli d’acqua, in mezzo a palazzi, enormi, nuovissimi, disanimati. Dovevano servire a far giocare bambini: acqua desalinizzata, su’ cemento, pompata a tempo, retroilluminata come in un circo, intorno erba sintetica, giochi costosissimi per far muovere colonie intere di minorenni iperattivi e scontenti di tutto, come i loro genitori.
C’è un cespuglio di rose, sulla strada del ritorno, che è fiorito, credo già da qualche giorno, ma non lo avevo visto, ero sprangata a casa.
Sono roselline rosa, di solito sono profumate.
E’ arrivata anche un po’ di luce che ne illumina le foglie e mi chino per verificarne la fragranza, non essendomi resa conto che non lo posso fare, bardata come sono e di toccarmi la faccia, non me la sento ora.
Sospiro, col respiro rotto. Mi è stato tolto uno dei piaceri per me più privati e sani: il poter odorare un fiore. No: basta.
In questo tempo bloccato, almeno in apparenza, accade anche qualcos’altro: ho avuto ed ho contatti, molto più caldi e stretti col prossimo, vicino o sconosciuto, proprio da quando tutta questa faccenda, è iniziata.
Ci si sente, in modo planetario, solidali.
E ci si comprende.
Sta azzerato razzismi di ogni genere e quelle schegge che ancora cercano di gridare il loro odio, sono oramai quasi inascoltate o messe a tacere da una mascherina in faccia.
Questo Virus, sembra più una cura che un danno, per tutti noi e per il luogo dove viviamo.
È tutto più pulito, anche nelle nostre relazioni. C’è più verità.
È arrivata una lentezza naturale. Non ho idea se mi ammalerò o no, se i miei cari lo saranno, cerco di proteggerli e di proteggermi un po’ anche io, in questo momento, ma il fatto più importante, anche se può sembrare una voce controcorrente, è che mai mi sono sentita tanto unità a tutti voi e tanto responsabile per tutti.
E questo sento che è il lato più positivo e costruttivo di tutto questo tempo strano, di corse ai vaccini e guanti sterili.
Forse stiamo già arrivando alla cura reale di tutto questo stravolgimento mondiale: essere più uniti, sinceri, onesti, aperti, tra di noi.
E questa magari sarà la cura per tutto e il virus si brucerà da solo, perché riequilibrandoci tutti noi, non avrà più ossigeno e profumi, da rubarci
Chi deve leggere assolutamente questo articolo di Emanuela?